Vincenzo Gemito risorge, tra follia e debolezze al Teatro Piccolo Bellini
Il teatro spesso regala sensazioni che molto hanno a che fare con il viaggio interiore, volontarie, o meno che siano, è li che nasce il tutto e li resta, forse.
Ci sono storie che sembrano fatte apposta per il teatro. Storie che non puoi solamente ascoltare, storie da vedere, guardare insomma scrutare. Ascoltare, certo, ma non nel modo usuale, non come pensiamo d’ascoltare qualsiasi altra cosa, a teatro l’ascolto è anche visione e la visione è sensazione, immagine viva che arriva alla mente e di cui puoi fare qualsiasi cosa.
Al Teatro Piccolo Bellini di Napoli, Antimo Casertano, scrive, dirige ed interpreta “Gemito, l’arte d’ ‘o pazzo”, con lui Daniela Ioia, Luigi Credendino e Ciro Kurush Giordano Zangaro. La scelta è quanto mai complessa, quanto mai tormentata, quasi quanto la vicenda, l’esperienza, e l’intimo fare dello scultore napoletano.
Vincenzo Gemito raccontato dalla fuma dal manicomio che lo rinchiude fino di fatto a quella che può essere considerata la fine dei suoi giorni, il momento in cui smette di vivere, allineato ad un concetto universale di quotidiano confronto, fino a molto oltre. In scena gli attori sono limpidi, hanno sui volti la sofferenza e l’audacia dei personaggi che circondano lo scultore. Voci e contro voci, volti, icone in carne ed ossa che letteralmente devastano l’immagine stessa della messa in scena, irrompono sulla visione ed impongo allo spettatore il confronto serrato tra arte ed arte.
In mezzo, al centro di tutto Vincenzo Gemito, la cui interpretazione di Antimo Casertano spesso sfiora il brivido. E’ viva, sentita, l’attore ha dentro l’artista ci parla probabilmente ed ascolta prima di riportare quella che è la sua verità. La regia è forte, visionaria, passionale, Luigi Credendino e Daniela Ioia, meravigliosi cherubini di una immagine che chiede d’essere in qualche modo lanciata verso la pace e forse la solitudine. I due volti, le due interpretazioni che si sovrappongono e quasi scompaiono a vicende, la mente dell’artista e la realtà, cosa prevale?
Ciro Kurush Giordano Zangaro è il Carlo V, di fatto non ultimato, mai realizzato soltanto progettato dallo scultore. Il suo tormento il suo ultimo confronto con la sua arte con il mondo di fuori, il suo punto forse più alto e di fatto la sua fine. E’ vita, è il confronto con l’audace resa ad essa, abbandonato ai giorni ed a ciò che ne consegue. Lo spettacolo squarcia l’animo dello spettatore, entra dentro, si avverte la potenza di un dialogo, di uno sguardo, di una visione. Tutto è li, fermo, immobile, fissato nell’allegorica visione dell’arte, che entra ed esce dalla scena tra vita inerme ed avvolgente passione. E’ tutto insomma e forse anche niente. Pace e tormento, vita e morte, arte e distruzione.