“Via del Popolo”: la Spoon River di un’Italia indimenticabile nel racconto di Saverio La Ruina
Uno, due, cento immagini di un paese che non sarà mai dimenticato. Un racconto intenso, autentico, ricco di vita e colore.
Il racconto di un’epoca, di un pezzo di Italia e della sua storia di rinascita negli anni in cui sognare voleva, senza ombra di dubbio, dire qualcosa. Sognare il lavoro, la realizzazione professionale, un futuro dignitoso per i propri figli, offrirgli possibilità soltanto immaginate. L’immagine arriva dai quei luoghi, dai territori montani che avevano nella città la propria America. In questa logica, in questo contesto dai tratti quasi onirici, tra ricordo, malinconia e ricerca in qualche modo di se stessi, parte un racconto unico, complesso, ironico, intenso.
“Via del Popolo”, scritto e diretto da Saverio La Ruina, regia di Cecilia Foti, in scena nei giorni scorsi nel suggestivo contesto teatrale di “Sala Assoli”, a Napoli, è un affascinante e forse istintivo raccontare e raccontarsi, tra sogni, per l’appunto, speranze e illusioni. Premio Ubu 2023 come miglior nuovo testo italiano, candidato come migliore novità al Premio Le Maschere del Teatro Italiano, “Via del Popolo” è un luogo di vita, è racconto di vita da un punto all’altro del percorso di donne e uomini, alla ricerca, forse, anche di comune senso di appartenenza.
I tratti, della messa in scena ripercorrono, cosi come anticipato un pezzo di storia italiana. Il dopoguerra, la voglia di riscatto, la rinascita e tutte le dinamiche che in un modo o nell’altro aiutano a concretizzarla e legittimarla. Storie, luoghi dell’infanzia e dei primi accenni di vita vera, dai primi passi alle complesse e intense riflessioni. I personaggi che una vita la caratterizzano, spesso pittoreschi, anime onnipresenti di luoghi che non vanno mai via dalla propria storia. Dall’entroterra calabrese alla città, Castrovillari, che di colpo, agli occhi di un bambino e di quanti fino a quel momento hanno vissuto tutt’altra esistenza, diviene una sorta di grande metropoli.
Le abitudini, i vizi, le virtù di una comunità, il tempo che tutto governa, e un impianto scenico tra l’onirico e l’evocativo. Un racconto sospeso a metà, vita, impressioni, ricordi. La meticolosità del ricordo e della sua successiva evocazione danno la cifra di una immagine a metà, da Edgar Lee Masters a Mario Monicelli, verrebbe da immaginare, da “Spoon River” alla commedia all’italiana, quella reale, bella, specchio della società e dell’intero paese. Dal cimitero, è lì che tutto ha inizio nell’ipotetica scena disegnata dai fatti, riportati con efficacia e tratto malinconico da Saverio La Ruina fino alla vita vera, quella del passato, degli affetti dei primi amori e delle prime prove dell’esistenza.
La famiglia, i sogni, le aspirazioni. Il protagonista, in scena, fa suo il pubblico passando dalla semplice, si fa per dire, “cronaca” dei fatti all’uso quasi ipnotico del dialetto. Elemento, quest’ultimo, capace dal niente di far rivivere tratti e volti a lui cari, la famiglia, la casa materna e quel senso d’appartenenza sempre intensamente presente. Il finale è un ritorno al punto d’inizio. Lì dove la trama prende vita, gli ultimi momenti di vita di un padre, che nella semplicità di un gesto racchiude forse una idea di vita. Uno spettacolo vivo, vibrante, fatto di immagini, musica e tanta nostalgia dei primi anni, delle esperienze e dei colori di quel passato che sempre, nonostante tutto, accompagna ognuno di noi lungo il proprio percorso.