Un atto gratuito d’insospettabile amabilità: la vie devant soi
Silvio Orlando incanta il pubblico del Teatro Mercadante di Napoli. L’opera interroga e convince. Un punto di vista.
Luci sommesse. Casse di legno impilate l’una sull’altra: simbolo di un palazzo nel quartiere multietnico di Belleville, a Parigi. Nella penombra del palcoscenico s’intravedono un sitar, un banjo e altri strumenti musicali. Il ritmo tribale scandisce la melodia multietnica dell’’Ensemble dell’Orchestra Terra Madre.
Silvio Orlando claudica, balza, rallenta e interpreta il giovane Momò dinanzi agli occhi dello spettatore assorto. È un caleidoscopio di immagini, identità, personaggi e narrazioni diverse.
Eppure, nel caos che regna sovrano, l’azione scenica riprende il fil rouge dell’attualità. L’attore partenopeo, classe ’57, interpreta, recita e cesella il romanzo “La vie devant soi” di Romain Gary, pubblicato nel 1975, al centro di un discusso Premio Goncourt.
Orlando s’immedesima in Momò, bimbo arabo di dieci anni che gozzoviglia tra il “quartier de Belleville”, cuore pulsante del multiculturalismo della ricostruzione post-bellica. Insieme ad altri orfani, tutti singolarmente interpretati da Orlando, vive nella pensione di Madame Rose, attempata ex prostituta di origine ebraica. Il trauma dei campi di concentramento e la fuga si modella sulla sua vita attuale: prendersi cura degli “incidenti”, “dei figli di puttana” delle colleghe più giovani.
È il caos. Immaginate di dover gestire un semplice orfanotrofio. Non solo, considerate che ogni bambino parla una lingua diversa e possiede un prospettiva singolare. Caos al quadrato.
È pura anomia.
Immaginate di voler sedare le grida, gli strepiti e le volontà dei bambini con sostanze psicotrope. No, Madame Rose non è come le altre. S’affeziona, impara ad amare, e non vuole trattare i suoi piccoli organi come reietti inorganici.
Chi è figlio unico conosce bene quel sentimento di condivisione, quel processo d’astrazione significativo che ti porta alla ricerca di qualcosa di indefinito. Di un gemello inesistente, o immaginato, di un parente fantasma: a volte si ha come la sensazione di non avere radici.
Ma non è così.
Il legame tra Momò e Madame Rose si fortifica progressivamente. Il primo, alla ricerca della madre biologica, la seconda, alla scoperta di una genitorialità rimossa.
Madame Rose è, per certi aspetti la vera madre di Momò. Ne sono convinto. Il vincolo biologico, in realtà, se osservato sotto una specifica dimensione culturale non è poi così vincolante.
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Alcuni bambini sono cresciuti da una madre o da un padre single, o, in loro assenza, dai nonni. Alcuni bambini sono adottati. Altri hanno due padri, o due madri. La genitorialità non solo è intrisa di prospettive culturali antitetiche o divergenti ma è un concetto storicamente e culturalmente determinato.
Facciamo un salto all’indietro e proviamo a dialogare con i nostri cugini primati.
I Gorilla vivono in harem costituiti da molte femmine e con la sterminata prole. Ogni cucciolo di gorilla ha una madre diversa, ma tutti hanno lo stesso padre. Agli oranghi invece piace la solitudine, preferiscono starsene seduti da soli a fissare poeticamente il tramonto. Le madri di orango sono quasi sempre genitrici single: crescono i loro figli in modo solitario e quando il giovane orango diventa adulto, esse lo lasciano andare e vivono per conto loro. È questo quello che vogliono. È la vita davanti a sé.
Gli scimpanzé sono l’esatto contrario degli oranghi. Vivono in comunità rumorose con una presenza paritaria di maschi e femmine. Non formano coppie stabili e, sebbene i giovani scimpanzé stiano molto con le madri, neppure sanno chi è il loro padre. La parola padre, probabilmente, è priva di una cornice semantica. I bonobo, infine, stringono legami intensi tra femmine, così intensi da costruire rapporti sessuali stabili e si discute, a tal proposito, di genitorialità al femminile ove i maschi adulti non hanno alcun potere sull’allevamento e sulle decisioni per l’accudimento della prole.
L’antropologia culturale, infine, descrive i nuclei familiari nell’età della pietra. La strutturazione più frequente coincideva con l’architettura partica della paternità collettiva. Gli indiani Bari, ad esempio, credono che un figlio non nasca dallo sperma di un suolo uomo, ma dall’accumulo del liquido seminale di uomini diversi, custodito, gelosamente, nell’utero di una donna. Dunque, una buona madre ritiene suo dovere consumare molteplici amplessi soprattutto quando è incinta, cosicché suo figlio erediti buone qualità e goda delle cure paterne. La monogamia e la famiglia nucleare non è un dato metafisico ma è una relazione esteriorizzata di una disposizione comportamentale negoziata collettivamente.
Ma qual è il legame con l’opera dello spettacolo “La vita davanti a Sé”?
Una certa fame di genealogia.
È questo ciò che spinge le cultura a contaminarsi: un origine comune. Ed è la stessa tensione vitale che attraverso il corpo di Momò: scoprire l’identità di sua madre. Ma in questo picaresco viaggio, egli riscopre l’affetto di Madame Rose. Il giovano cerca l’affetto all’esterno, la donna attempata dall’interno: questo è il simbolo dell’amor filiale.
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Silvio Orlando plana sul dorso delle parole al di là delle ideologie sbrigative sul tema dei flussi migratori, del diverso, della genitorialità, della claustrofobia etnica e dello scontro religioso.
Lo spettacolo teatrale non indica vie o soluzioni, ma narra storie emozionanti e travolgenti.
Forse, il segreto è nell’abbraccio furtivo tra Momò e Madame Rose. Nella loro disperazione indistinta e angosciante contro tutti e tutte. Una lotta utile che si incarna, come nel Lacfadio gideano, nell’atto gratuito di un estetica dell’ospitalità: bisogna voler bene, senza moralismi, al di là del bene e del male. In fin dei conti, il legame amoroso, filiale o amicale non è sostanziale ma è “costruire”, passo dopo passo, una storia duratura.
Luigi Celardo