Senza famiglia e senza armonia, al Piccolo Bellini lo sguardo di Magdalena Barile
Frastuoni e strepiti. Corpi mascherati da medico della peste, in versione post-moderna, si susseguono senza posa.
Al teatro piccolo Bellini va in scena “Senza Famiglia” interpretato dagli attori Christian Di Filippo, Francesco Gargiulo, Barbara Mazzi, Alba Maria Porto, Angelo Maria Tronca. La famiglia diviene luogo di conflitto: un asettico spazio in cui regna l’impossibilità di esprimersi. Il canovaccio scritto da Magdalena Barile racconta la detonazione generazionale, quel groviglio degli anni ’70 pregno di attivismo politico, di rivendicazioni femministe, di anticapitalismo che risorge letteralmente nel corpo della matriarca. Donna forte, disincantata e assertiva si risveglia il giorno del suo funerale suscitando l’incredulità dei nipoti e della figlia. La figlia, invece, donna fragile, eclissata nel suo ruolo femminile. Un’identità cesellata a mo’ di riviste patinate e di libri di cucina usate per preparare le migliori leccornie ai propri figli.
Lei, un’identità di genere socialmente costruita su misura del lavoro di cura, del lavoro domestico e di un corpo longilineo, slanciato e, per l’appunto, intersoggettivamente femminile. Così la famiglia implode: non è privazione né assenza. È la nonna che impartisce un’educazione politica e sentimentale destinata a un grottesco precipizio. Come un infante che s’inerpica su una scala, gradino dopo gradino. Ma non ha paura di cadere, perché la nonna è lì, pronta ad afferrarlo dopo un’eventuale caduta. E allora l’infante raggiunge la sommità della scala ma precipita nell’abisso. E la nonna lo lascia morire.
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L’infante è la madre, che s’affida, che abdica totalmente alla ragione per sostenere ciecamente una narrazione altra, funzionale, meno dolorosa. È il prezzo dell’autonomia, dell’emancipazione, della lotta continua, del sovvertimento dei ruoli di genere. È forse la morte, l’unica scelta ? La crisi familiare afferisce all’orientamento sessuale del figlio, alle spinte auto-lesioniste della figlia, al becero e frivolo consumismo del suocero. Ma perché tutti i personaggi s’aggrappano alle proprie versioni della stessa famiglia disfunzionale ?
Vi è un bisogno antropologico fondamentale: ogni gruppo umano provvede a dotare i propri membri di un ordine, di un cosmo sicuro al cui interno poter vivere difesi dai sempre imprevedibili e minacciosi attacchi, di creare stabilità e certezza di fronte al caos, di fronte alla morte. E allora la nonna mette in discussione la tana kafkiana della figlia. Lei compie sforzi per costruire un mondo razionale e ordinato che le consenta di proteggerla dall’inquietante irrazionalità, dalla sovversione dei ruoli, delle certezze di cui la madre è portatrice.
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Ma tali sforzi, ed è questa la grande lezione kafkiana, non donano la libertà insperata ma finiscono inesorabilmente per costringerla ancora di più in una Tana che lei stessa ha costruito con immensa fatica. “Se tutto fosse sotto controllo io non avrei paura” è questo che recita l’organismo – personaggio principale del romanzo “La tana”. L’attività febbrile che impiega per tenere a bada le sue angosce attraverso calcoli e progetti non fanno altro che perpetrarli.
Ma Kafka ci fa capire come questo atteggiamento non sia totalmente infelice. Man mano che si procede nel costruire la tana si prova uno stato di voluttà: i calcoli di convenienza tendono, in realtà, a dissimulare l’angoscia di fondo alla quale cerchiamo di sfuggire. Questi calcoli, questa “gestione del benessere” hanno solo una finalità: rassicurarci sul fatto che noi siamo felici – non facciamo altro se non costruire la tana individuale. Così adottare una religione, un’ideologia politica, un senso ultimo delle cose non è un modo per avere sotto mano un insieme di regole e di dogmi molto più incontestabili di quelle che ciascuno potrebbe mettere nel suo piccolo cantuccio?
E allora il conflitto generazionale è tutto qui. La speranza, come asserisce Kafka, non è l’attesa di un futuro idealizzato, da proiettare in un avvenire, ma la ricerca di ciò che è possibile nel presente. L’obiettivo è quello di restare dignitosamente dritti; di non piegarsi di fronte all’angoscia dell’inesplicabile. Bisogna accettare l’esempio o modelli in chiunque sappia accettare la loro stessa vulnerabilità. Ma la verità è sempre un abisso. Ci insegnano che è necessario sacrificarsi all’ordine sociale, bene. Ora, chi accetta tale sacrificio non è più realmente vivo. In tal modo sperimentiamo dalla mattina alla sera un vissuto decoroso, ordinato, che ci porta ad agire esattamente come tutti si attendono che dobbiamo agire, seguendo degli schemi di condotta predeterminati. Vivere in questo modo significa abbandonarsi alla banalità dell’esistenza.
Ma l’alternativa è quella di accettare il fatto che non si appartiene a questa realtà. Ma non è rifugio nell’idealità platonica, ma affrontare comunque questo mondo e provare ad uscire dalla caverna. Si deve imparare a gestire l’esistenza all’interno della caverna, perché non esiste alternativa. Tutte le minuzie, piccole e insignificanti passioni non hanno alcun senso che vada al di là di quello che si manifesta. La saggezza kafkiana è quella che non dovrebbe condurci a rifuggire la realtà ma nell’apprendere ad abitarla senza sfuggirgli, senza fuorvianti illusioni. “Le monde est absurde!” ma non ce n’è un altro; bisogna affrontarlo: senza certezze ma anche senza disperazioni. Con pienezza ma come in esilio.
Entrare nella notte, nelle tenebre e affrontarle. Perché è questo l’unico cammino. Scoprire la nostra insufficienza, toccare l’angoscia senza fondo. Trovare i demoni, quelli che ci fanno più male… Ma farlo non è da tutti. Ci vuole tensione, empatia e autoconsapevolezza che la figlia non ha. E così si consuma l’inevitabile epilogo: l’assurdo prende il sopravvento e la tana l’inghiotte. Si illumina la sala. C’è solo tetro e oscuro sbigottimento.
Luigi Celardo