“Senet” di Pier Lorenzo Pisano, al Teatro Piccolo Bellini: il racconto di Alessio Avellino
“I bambini possono sembrare talvolta delinquenti innocenti che sono stati condannati non alla morte ma alla vita, senza tuttavia aver ancora appreso il contenuto del loro verdetto.” Arthur Schopenhauer
Il sabato che ha preceduto la prima di questo spettacolo, mi sono ritrovato anch’io in balìa della domanda “cosa c’è fuori?” mentre mi accingevo ad entrare in pizzeria per ordinare tre pizze: per me, la mia compagna e il mio amico. Un sabato di dicembre, verso le venti e trenta circa, la pioggia sottile, l’aria tagliata dal primo freddo napoletano, il Natale più vicino ma non così tanto. “Una margherita, un ripieno e una montanara” e di sottofondo la voce della televisione sintonizzata su Rai 1 a trasmettere quei programmi di intrattenimento tipici del sabato sera che ricreano una situazione di tranquillità nei miei ricordi infantili. Il tepore del forno della pizzeria sotto casa, il numero dell’ordinazione tra le mani fredde e altri quattro uomini ad attendere con calma, di fianco a me, la leccornia d’asporto del weekend, nella mia stessa identica posizione: braccia incrociate, gambe larghe e ventre in avanti. E’ così che ho visto mio padre di qualche anno fa – e io di fianco alle sue gambe, protetto dalla tranquillità dell’incosciente inconsapevolezza della mia età, sentendomi lui e me contemporaneamente.
Pochi giorni dopo mi ritrovo allo spettacolo “Senet” di Pier Lorenzo Pisano, andato in scena al Piccolo Bellini di Napoli. Sono nella poltroncina proprio di fronte ai tre attori (Alfredo Angelici, Federica Carruba Toscano, Matilde Vigna), al buio e l’immaginazione di me bambino diventa rappresentazione.
Sul palco, nella penombra, le due attrici rappresentano la preoccupazione e la rassicurazione che – probabilmente – rispettivamente si alternano in noi, sin dall’infanzia. “Scusami, mi sono lasciata andare, non so perché mi sto comportando così”, e spesso non lo sappiamo perché il panico ha la meglio su tutte le altre emozioni nell’inconsapevolezza del “cosa c’è fuori”. Le protagoniste non lo sanno, fuori piove, parlano di un blackout in corso, di soggetti e oggetti che potrebbero esserci o non esserci al di là della finestra che idealmente dà sulla platea. Il mondo si crea e si distrugge nella narrazione delle due, quella narrazione che fa pensare all’immaginazione creativa dei bambini, alle loro sensazioni amplificate che poi sono nostre ché al fanciullino basta il buio, l’incertezza, l’impossibilità di riconoscere nello spazio ciò che lo circonda per emergere con prepotenza.
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E’ dall’altra parte della finestra che mi sono sentito nel letto cigolante di mia zia, in un qualsiasi sabato sera invernale post rituale liturgico. In quella stanza buia e non riscaldata, un me in pigiama, sotto due o tre coperte, al centro del letto a guardare la televisione sintonizzata su Marameo, con le battute sessiste di Pippo Franco che ci è voluta una vita per decostruirle e ridisegnare le donne al di là della funzione di “cornicette”. Tra le braccia, una bottiglia in plastica usurata di Pepsi Cola riempita da zia d’acqua bollente. Il pavimento dei vecchi palazzi fatiscenti vibra ad ogni passaggio di autobus o mezzo pesante e così, i miei sabato passati a dormire da zia vibravano di una preoccupazione spropositata: e se il pavimento cade, e se cade il soffitto che è il pavimento della signora di sopra, e se cade il palazzo. Crescendo, le preoccupazioni si sono spostate sul metodo per ottenere tepore, più fondate: e se dormo e questa bottiglia si apre e mi scotto tutto?
Il panico che sentivo all’ora, potrei riuscire a toccarlo con mano tutt’oggi. Ed è lo stesso che le protagoniste iniziano a provare quando la notte diventa più fonda, quando alla porta arriva un uomo – molto molto alto proprio come i bambini vedono tutti gli adulti – che non conoscono a rappresentare l’Altro sconosciuto, ciò di cui bisogna diffidare e con cui non bisogna interagire per preservare l’incolumità.
Nel buio di quella stanza poco sicura per sensazione, mi sono chiesto tantissime volte: cosa c’è fuori. Con la luce soffusa della scatola digitale luminosa e il nasino gelato, cercavo di captare i rumori che mi facessero sicuro della presenza di zia in cucina, dall’altra parte della casa. Molto spesso ero stanco ma dormire era impensabile: il mondo iniziava e finiva nella mia percezione di quest’ultimo. Proprio come per le due protagoniste in Senet. La paura di notare rumori me li faceva sentire veramente e la paura di non riuscire a sentirli, mi tappava veramente le orecchie.
Seduto in platea, anch’io ho rivissuto quella gioia intensa di sentire suonare il campanello della porta e ho rivisto i miei genitori – proprio più alti di oggi – dopo qualche ora da solo a casa di pomeriggio tardi, mentre piove e inizia a fare buio. “Adesso bussa, adesso bussa”, e cosa c’è fuori finalmente lo sai.
di Alessio Avellino