Pierfrancesco Favino incontra Koltès e la sua umanità, in scena, al Teatro Bellini di Napoli

Nella notte poco prima delle foreste, poco prima del punto di non ritorno della nostra umanità, poco prima della fine del mondo, un uomo, uno straniero, un estraneo, un diverso che ha tentato in tutti i modi di diventare un eguale, ferma nella pioggia un ragazzo. Che sembra un bambino. Immacolato”. L’introduzione, all’introduzione, di Lorenzo Gioielli, la base, l’anima, di un testo intenso, importante, e più che mai attuale, nell’indole, nelle viscere della sua struttura letteraria, nel profondo della sua missione, nell’estetica della sua durezza. Pierfrancesco Favino, presta corpo, voce, sguardo, approccio e tutto quanto nelle corde di un attore straordinariamente dentro l’immagine ed il cuore di quei versi. “La notte poco prima delle foreste”, di Bernard – Marie Koltès, in scena in questi giorni al Teatro Bellini di Napoli nell’adattamento teatrale dello stesso Favino, con la regia, del già citato Lorenzo Gioielli, è un crudo e quanto mai realistico faccia a faccia, con chi non t’aspetti di incontrare, con chi è dall’altra parte, con chi è perso tra i dubbi e le promesse di un tentato incontro, di una tentata condivisione, di un tentato approccio alla vita, lontana dal suo punto di partenza. “Mi sono imbattuto in questo testo un giorno lontano – ha dichiarato Pierfrancesco Favino – mi sono fermato ad ascoltarlo senza poter andar via e da quel momento vive con me ed io con lui. Mi appartiene – continua l’attore – anche se ancora non so bene il perché. È uno straniero che parla in queste pagine – conclude – non sono io, la sua vita non è la mia eppure mi perdo nelle sue parole e mi ci ritrovo come se lo fosse”. Nelle sue parole, cosi come in quelle, precedenti, di Gioielli, un altro sguardo al testo, un’alatra presentazione, un altro punto di vista, introduttivo ma anche puramente espositivo della natura dell’opera incontrata. Non è la nostra vita, appunto, ma è nelle immaigni di quelle parole, di quella vita, di quella realtà che siamo orientati a perderci ed a pensare di vivere per un attimo quella vita. Ed è qui la grandezza inestimabile di quest’opera, la possibilità, data a chi sta dall’altra parte delle pagine, del palco, di affacciarsi ad una condizione alla vista lontana, ma quando mai presente e vicina. La possibilità di sentirsi per un breve ma intenso momento, dall’altra parte, lontano da ogni principio di integrazione ed umano rispetto, il sentirsi soli, con la mente, prima che con il corpo, in una avanguardistica, probabilmente, metafora di tutto ciò che la vita in certi suoi “spazi” ancora tende a proporre, a presentare. Ed è li che tutto a luogo, nel vuoto dell’anima, nel dubbio dello stare al mondo, nell’immagine più sincera che si ha di se stessi, da un lato, da una parte ben precisa, spesso, troppo spesso, lontana da tutto il resto.