Silvia Calderoni al Piccolo Bellini (s)muove bisogno e necessità di indefinito
“Who was I now — woman or man? That question could never be answered as long as those were the only choices; it could never be answered if it had to be asked.” ― Leslie Feinberg, Stone Butch Blues
In scena, nella penombra, vari desk, consolle, luci da scrivania. Sulla sinistra, in alto, uno specchio pendente, uno schermo a mezz’aria: qual è la differenza? Proiettare qualcosa, proiettare sé stessi, proiettare una narrazione coerente di sé non è forse guardarsi? Guardarsi non è narrare cosa sentiamo di essere, cosa siamo?
Sul palco, Silvia Calderoni, attrice simbolo dei Motus, grida il suo sé attraverso il contenitore parlante di cui dispone: il suo corpo. Riversa in scena l’autenticità delle proprie forme, l’ambiguità come regola, lo scandalo imposto come norma rappresentativa. MDLSX, un titolo difficile da pronunciare, come tutto ciò che è vero – nel senso di decostruito. La peculiarità del sé richiede uno sforzo cognitivo significativo, l’energia necessaria a non percepire attraverso la sintetizzazione delle categorie ma attraverso lo sforzo e il suo dispendio necessario alla percezione dell’essenza individuale e irreplicabile della sua complessità.
MDLSX ha la capacità di fare questo: utilizza l’energia messa a disposizione dallo spettatore nel lasso di tempo dello spettacolo per fare a brandelli i binari cognitivi dell’eteronormatività, riducendo all’osso la “questione sessuale”; il problema non è cosa siamo, come lo siamo, il problema è come lo concettualizziamo.
Siamo pezzi, siamo parti, siamo innesti.
MDLSX, drammaturgia di Daniela Nicolò e della stessa Calderoni ,con la regia di Enrico Casagrande. Trae ispirazione dai testi di teoria “queer” di Judith Butler, da “A cyborg manifesto” di Donna Haraway, da “Manifesto contra sexual” di Paul B. Preciado; collidono al suo interno brandelli autobiografici ed evocazioni letterarie sulla (con)fusione tra fiction e realtà facendo riferimento a tutta la letteratura che si muove sul crinale dell’identità queer, o propriamente, “frocia”.
«Sono nato due volte: bambina, la prima, un giorno di gennaio del 1960, in una Detroit straordinariamente priva di smog, e maschio adolescente, la seconda, nell’agosto del 1974, al pronto soccorso di Petoskey, nel Michigan.»
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Callie/Cal di Middlesex, romanzo di Jeffrey Eugenides pubblicato nel 2002, è Silvia. Silvia è Cal. Nello schermo, proiettati pezzi di vita di Silvia e il suo corpo prestato alla narrazione di Cal, del suo devastante sentire.
L’ambiguità come “mostro”, perché è soltanto in un immaginario ben definito di mostruosità che si può installare un concetto di “normalità” imperante a cui fare riferimento: maschio-femmina, uomo-donna. Dalla sola pronuncia nasce e cresce nell’immaginario collettivo ed individuale la dicotomia universale del genere.
L’insolente spudoratezza della nudità si riversa nell’autenticità come sacra e sacralizzante: vera perché esistente, sconosciuta perché unica, sterile perché deconcettualizzata. Il corpo come limite della potenza personale e come possibilità di azione incommensurabile.
La dinamicità della carne che si batte e si sbatte tra le luci del palco si ribella alla staticità delle definizioni finite e impenetrabili dell’essere. Superando le nozioni categorizzanti entro le quali siamo tenuti ad esperire il mondo. A confermarlo, all’interno dello specchio-schermo rotondo, il dinamico sbocciare di fiori come l’impulso vitale della passione che sentiamo muoversi dentro e muoverci e a cui diamo il nome di identità.
MDLSX in Silvia si squassa, canta, si rappresenta in narrazioni mediali e in carne ed ossa, gridando silenziosamente allo spettatore la fatica inenarrabile che comporta la ricerca dell’autenticità.
Alessio Avellino