“L’ora di ricevimento – banlieue”, da Massini a Placido, un’aspra riflessione sociale, in scena al Teatro Bellini di Napoli
Ai margini della grande città, nella periferia avida e rancorosa di Tolosa, il professor Ardeache, cinico e disilluso insegnante di lettere, riceve ogni settimana i genitori dei suoi alunni. Li racconta Ardeache, li descrive, disegna il tratto fallimentare di un sistema ormai vuoto di ogni nobile pretese, la scuola, il sistema scolastico e la sua esperienza di vita. Insegna lettere, ed è li che prova a rifugiarsi, tornando e ritornando in un mare di citazioni, alle quali stanco e ritrito, prova ad aggrapparsi. Gli alunni, la scuola, i genitori, i colleghi, un variegato e spietato sguardo su uno strato di società, su un pezzo di città, un angolo di paese, frustrato e decisamente indifeso.
“L’ora di ricevimento – banlieue”, di Stefano Massini, in questi giorni in scena al Teatro Bellini di Napoli, con la regia di Michele Placido ed un interpretazione fuori dal tempo, di Fabrizio Bentivoglio, è uno lucido sguardo tra i disagi dei nostri giorni, un fedele punto di vista su ciò che circonda, in genere, ogni grande città, è un intenso racconto, una sorta di monologo, interrotto dallo sporadico intervento di altri personaggi, che è introspezione ed indagine sociale. Placido dirige l’orientamento comunicativo del testo, attraverso l’abile maestria di Bentivoglio, mettendo lo spettatore di fronte, a tratti, ad un intima confessione su ciò che gli anni e la vita hanno dato ad un uomo, ormai privo di fiducia nel prossimo, ormai senza più speranze, prossimo al totale abbandono.
La regia, ancora, si concentra sull’impatto sociale del testo, sulla caratteristica sempre più inusuale nel teatro odierno di raccontare ciò che intorno a noi si manifesta, ciò che stancamente ci circonda. La periferia, le sue sfumature, i personaggi, la spesso inutile pretesa di un’istituzione come quella scolastica, il disinteresse degli studenti, l’arroganza inconscia dei genitori, privi d’ogni contenuto, ma convinti paladini della giusta causa. Lo spettacolo travolge e pretende riflessione, gli attori, si prestano abili, al gioco del teatro, e ciò che nasce è una spietata critica a ciò che non crediamo essere, a ciò che vorremmo non si prendesse in considerazione, a ciò che siamo, ed a ciò che senza alcuna possibilità di cambiamento, stancamente ci circonda.