“La Cupa”, di Mimmo Borrelli, al Teatro Bellini di Napoli

Energico, dirompente, profetico, dolce e ironico. Quando l’uomo sa di poter essere se stesso il racconto arriva all’anima, al cuore. Il teatro è servito.

La Cupa (Marco Ghidelli)

Pluripremiato ed acclamato in ogni dove, “La Cupa”, scritto, diretto ed interpretato da Mimmo Borrelli e da un gruppo meraviglioso, anima e corpo di una rappresentazione che è stato ed essenza, materia e spietata connessione con qualcosa che chiede di arrivare, di essere percepita, di arrivare li dove i sensi possano coglierla, viva, audace, più struggente e definita che mai. Il contesto, riadattato per le apposite esigenze della messa in scena, per farne audace passarella di storie di donne ed uomini è il Teatro Bellini di Napoli. Il racconto è feroce, quasi epico, la vita, il dramma di un gruppo di donne, uomini e tanto altro. Carne e metafora, immagine e spaventoso nulla. Il tutto, descritto, servito con la naturalezza di chi attraversa l’uomo per coglierne ogni sfumatura. Le viscere, l’inferno interiore, la ricercata pace, scagliate sul pubblico in una mistica operazione sociale. Canti, balli, versi, un rito, per evocare l’uomo, o forse rievocarlo. Il tutto, il peggio,  poi l’inesorabile natura.

Non è semplice, usuale, imbattersi in qualcosa del genere.  Sarebbe limitativo esprimersi in senso puramente empirico, non si tratta del giudizio, della riflessione in merito a quanto esclusivamente visto, il raggio d’azione è molto più ampio, molto più complesso. La rappresentazione, che è più vita di quanto spesso l’ipocrita visione servitaci da ogni dove possa dirsi essa stessa vita, è un brivido, un colpo secco alla coscienza. Un covo di ultimi, una periferia grottesca e quantomai viva e autentica, nonostante le immani miserie umane che la caratterizzano. Un manipolo di marchiati a vita, dall’esistenza stessa e dalle trame infinite dei sentimenti e dell’istinto che si mostrano al pubblico in una audace e spudorata visione di se stessi.

Uomini, bestie, vita, onirico, cielo, natura, elementi. Tutto ed alla fine il ritorno alla terra, all’origine. Un reset fisiologico che arriva al culmine di dinamiche maledettamente sincere, vere, da far rabbrividire il più pulp dei registi cinematografici. “La Cupa”, non è quello che alla fine, o anche all’inizio, o nel centro del racconto, il cittadino crede di aver compreso. “La Cupa” con la sua miriade di bizzarre ed inattese, proprio perchè autentiche prese di posizione è essa stessa esperienza di vita, confronto tra anime, tra menti logore e perduta speranza. Il tutto raccolto in pochi metri di indimenticabile teatro. Un accenno alla vita, all’esaltazione dell’essere, tra milioni di difetti e pochi, quasi raccattati pregi. L’uomo, l’imperfezione, il cuore, il sentimento e poi ancora tanto istinto.

Il marcio, forse, non è nell’uomo ma nell’approccio di esso con il contesto che naturalmente lo accoglie. Gli elementi, le radici, i colori i toni la violenza drastica e spietata che aleggia nei non luoghi che ci si ostina a nascondere. Il marcio, l’umano, la sua rappresentazione estetica e viscerale. Il maestro ha tuonato e la pioggia che verrà sarà salvifica, pungente, spietata, per quanti vorranno coglierne le vibrazioni.