“Glory Wall” tormenta e interroga il pubblico al Piccolo Bellini di Napoli

Uno spettacolo insolito, di quelli al quale si fa fatica a dare inizialmente una logica, un senso forse. Poi la magia si compie e tutto va da se.

Non c’è pace per quanti a priori vorrebbero marchiare una particolare tipologia di teatro. Non c’è pace per quanti a tutto vorrebbero dare uno specifico involucro. In alcuni casi ciò che da fuori potrebbe apparire come una stretta cintura di contenimento, non basta. Allora accade qualcosa di molto anomalo, considerato il contesto. Succede insomma che l’energia, il contenuto, il tutto si liberi in una immensa esplosione di immagini, contenuti, provocazioni. Troppo? A cosa serve quantificare, l’importante è il messaggio, importante è ciò che alla fine resta dentro e negli occhi, certo.

Glory Wall

Un testo, una idea di Leonardo Manzan e Rocco Placidi, per una produzione targata La Fabbrica dell’Attore – Teatro Vascello, Elledieffe. In scena, ma in questo caso forse la definizione è troppo azzardata Paola Giannini, Giulia Mancini, Penelope Sangiorgi, Leonardo Manzan, Rocco Placidi, il contesto, per l’occasione il Teatro Piccolo Bellini di Napoli. Il dubbio sulla scena è d’obbligo, in questo caso. Chi c’è in scena davvero? Gli attori, particolari estensioni visive e immaginifiche dei propri corpi, o magari soltanto una idea?

“Glory Wall”, pluripremiato, criticato nel bene e nel male praticamente da chiunque, messo in scena in svariati contesti e paesi del mondo, è di certo un pugno allo stomaco per chi ha come chiodo fisso la necessità di incasellare qualsiasi cosa cucendogli addosso il vestito della giusta occasione. In questo caso un vestito non esiste, un abito, un contenitore per l’appunto, uno scaffale, chiamatelo come volete. In questo caso il tutto è in un muro, dietro, davanti e dentro di esso. La censura? Certo, il tutto ruota intorno alla censura. C’è? Non c’è? Se c’è quanto è influente.

L’iniziale visione per lo spettatore consiste in una serie di dubbi, riflessioni, spesso ironiche certo, ma pur sempre riflessioni. Il muro, un foglio bianco dove scorrono incontrollate svariate parole. Si muovono, ondeggiano, vanno avanti, poi indietro, poi restano. Anche questa è visione, anche questa è immagine. Forse metafora, magari allegoria, l’importante è ciò che resta. La costrizione dell’arte, la costrizione certo anche del teatro. Il tutto considerato, approfondito anche l’attraverso i contributi di personaggi ormai troppo spesso dimenticati.

Dal nulla arrivano, per dire Pier Paolo Pasolini e Giordano Bruno, il pubblico partecipa, in quel caso è addirittura attore. Il contenuto, mai forzato, rende l’idea di ciò che tra un sorriso e una mezza illuminante certezza, il tutto sta forse arrivando. Cosa ci aspettiamo di solito da uno spettacolo teatrale? Quali canoni, quali parole, quali immagini. Non è banale constatazione, anzi. In questo caso il tutto va oltre, il tutto in questo specifico contesto non ha ragione, non ha freno, non ha inibizione.

I corpi degli attori “in scena”, le immagini disegnate dalle proprie mani, le non immagini che arrivano forse ancora più dirette al pubblico. La censura esiste, certo, forse addirittura naturale, forse addirittura nemmeno orientata da una qualche oscura commissione riunita in una altrettanto tenebrosa stanza. Oggi la censura, forse, è addirittura altrove. Nello stesso animo di chi scrive, di chi dirige, di chi recita. Forse, ancor di più in chi osserva, guarda, scruta, la messa in scena del tutto.

Parole, divagazioni, immagini sfocate. Vero, tutto o quasi. Tutto e niente. L’ultima scena, quella in cui l’autore, chiarisce il suo punto di vista, la sua posizione, le sue intenzioni è di certo la più potente di tutte. Perchè? Forse per lo stesso motivo per il quale il tutto, quel tutto, in quel determinato momento è andato in scena. Un nudo, la parte più “oscena” per chi guarda, del corpo, in un esilarante ed eccentrico dialogo con una funambolica intervistatrice. Osceno? Ne siamo proprio sicuri? Forte? Magari naturale, magari tutto e il contrario di tutto.

La censura siamo noi, probabilmente. Noi e l’infinità di messaggi che dall’esterno fanno in modo che sia lo stesso pubblico ad autocensurarsi. Restare scioccati per un nudo? Una parte di corpo, quella parte di corpo. Cosa è rimasto realmente scioccato? Il pubblico o ciò che dovrebbe decidere cosa è da ritenersi scioccante? Scioccante davvero. Il resto è forse appendice, contorno, delizioso divagare per poi arrivare dritti a quel punto che tutto ferma e tutto fissa nella mente e negli occhi di chi osserva. Per chi non ha capito, per chi non ha voluto comprendere e oggi ancora si ostina a fingersi irritato, la risposta è proprio in quel punto.

Una dedica, un omaggio, toccante, più che mai. Vero, autentico, umano. Proprio li va a restringersi il campo. Proprio di quella pasta, sono forse da considerare le critiche sterili. Forse, il contenuto del tutto, è proprio in noi stessi.