“Artemisia”, la voglia di uscire dai canoni e raccontare la propria storia

Dal 9 al 19 marzo al Teatro Tram di Napoli va in scena “Artemisia”, un testo di Mirko Di Martino, il quale dirige Titti Nuzzolese e Antonio D’Avino in un atto unico dedicato alla storia della famosa pittrice da cui prende il nome l’opera teatrale.

 

La storia dell’artista seicentesca è nota ai più. Artemisia cresce come figlia d’arte nella casa di suo padre, il grande pittore Orazio Gentileschi, e la sua giovinezza è segnata da un episodio traumatico: nel 1612, all’età di 17 anni, la giovane artista viene stuprata dall’amico e collega del padre, Agostino Tassi, nella sua stessa casa. Da questo episodio in poi la vita e la concezione artistica di Artemisia cambia, si impregna di crudezza e voglia di rivalsa, due aspetti per nulla consueti per una donna del suo tempo.

Artemisia

L’opera si presenta asciutta, compatta, battente, in una sinfonia di battute che si rincorrono, con cui ognuno dei personaggi vuol far valere la sua visione del mondo. I costumi d’epoca sono rivisitati in una chiave per niente ridondante, con colori caldi e avvolgenti, i quali si mescolano perfettamente ad una scena minimalista, ma allo stesso tempo curata nel dettaglio; a fare da sfondo ci sono i dipinti della pittrice, che vengono svelati poco a poco durante lo spettacolo. In scena ci sono Artemisia ed un uomo che incarna, da solo, tre dei suoi aguzzini: un giudice, suo padre e il suo stupratore. La scena si apre come già avviata e ci lascia liberi di interpretare in vari modi, fino al finale esplicativo: un momento nella realtà oppure un ricordo, un flashback in cui Artemisia si ritrova catapultata contro il suo volere; un dialogo con i propri demoni o con la propria coscienza, durante il quale tutto si sa ma nulla è concluso.

Nel corso della storia e dell’incontro tra Artemisia e i tre personaggi maschili, appaiono tre dei suoi dipinti topici: “Susanna e i vecchioni”, “Giuditta e Oloferne”, “Giaele e Sisara” , opere diverse tra loro che in un modo o nell’altro rappresentano l’esperienza di Artemisia. Qui l’artista esprime la condizione di donna, dando forma a situazioni e corpi mai esplorati prima. I quadri vengono presentati in chiave biblica, con la descrizione dei racconti che li hanno ispirati; eppure c’è sempre qualcosa ad interferire con il puro e sterile descrivere: la mente e la mano di Artemisia, la sua voglia di uscire dai canoni e raccontare la propria storia, attraverso le imprese di donne coraggiose e fuori dalla normalità sociale, proprio come lei. Sono scene eloquenti, violente, ricche di pathos, dove ogni dettaglio coglie la forza e la debolezza della pittrice e quelle delle sue eroine.

Gli uomini, invece, vengono rappresentati come meschini, padroni e misogini, giudicanti e inetti, ma la cosa che li accomuna di più è l’incapacità di ascoltare ed accogliere la verità della pittrice, e molto della messa in scena gira proprio attorno a quello che è il concetto di verità: Artemisia scalpita con le sue parole, additando agli uomini la colpa di vedere tutto o bianco o nero e di non cogliere le sfumature di un concetto, di un fatto, di un’idea, lì dove la verità può essere soggettiva e non regolamentata. Proprio per questo, la voce grossa e imponente di quegli uomini, che non hanno molto da dire se non accusare la donna in modo volgare e violento, risulta molto più flebile di quella di Artemisia che, pur essendo sola e abbandonata, risulta molto più forte e coraggiosa.

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Il testo si chiude con una serie di ricordi nostalgici dell’artista, la quale ammette di aver dedicato tutta la sua vita all’arte e a nient’altro, facendosi risucchiare dal suo dolore e dalla sua voglia di riscatto. Eppure, continuando, dice di non potersi vedere in alcun altro modo se non sacrificando la sua vita alla pittura, alla dimostrazione del suo valore e all’affermazione delle sue idee.

Alla fine di tutto, il riassunto della vita di Artemisia -ancora una volta- nelle parole di suo padre: “L’arte non si abbandona, la si lascia agli altri. Non si è padroni dell’arte e nemmeno della propria vita”.

Titti Nuzzolese nei panni di Artemisia appare fiera, sia per l’aspetto -che resta semplice e austero-  che per lo spirito con la quale la interpreta; il suo modo di modulare la voce e la sua gestualità accompagnano il personaggio attraverso le più svariate emozioni: il dolore, la rabbia, l’orgoglio, la speranza. Mai esagerata, mai noiosa, sempre in quel mezzo dove sta la virtù e dove si vede un lavoro di immedesimazione accurato.

Antonio D’Avino viaggia coraggiosamente attraverso tre personaggi, che appaiono simili, ma sono totalmente diversi tra loro: il suo Orazio è severo e burbero, il suo Agostino è spavaldo e pieno di sè, il suo giudice è tarato e condannante. Non c’è mai nulla nell’interpretazione che può farci confondere tra i personaggi, ogni tratto caratterizzante è studiato in modo magistrale e dettagliato. In più, come se non bastasse, è sua la voce del narratore che ci spiega nel dettaglio le storie dalle quali sono tratti i quadri di Artemisia presenti in scena.

La regia risulta limpida e puntigliosa nella pulizia del testo e della messa in scena, e questo è un pregio di pochi: soli due attori in scena in un atto unico che riescono, in uno spazio ridotto, a donare tutta la grandezza dei loro personaggi.

Giada Orlanducci