Andrea De Rosa porta al teatro il cinema con Solaris
«L’uomo è ugualmente incapace di scorgere il nulla da cui è tratto e l’infinito da cui è inghiottito.» Blaise Pascal
Solaris, originariamente romanzo di Stanislaw Lem del 1961 diventa sceneggiato per la televisione sovietica del regista Boris Nirenburg nel 1968 e ancora film diretto da Andrej Tarkovskij nel 1972 e, successivamente, da Steven Soderbergh nel 2002. Oggi, lavoro teatrale di Andrea De Rosa, che riporta in maniera magistrale la complessità narrativa del romanzo e la spettacolarità del cinema: un sottile legame che tiene saldi, ad un filo sottilissimo, il reale e il distopico, la narrazione e l’evento, il tutto e il nulla.
Il Teatro Mercadante di Napoli si trasforma fisicamente per permettere alla rappresentazione di farsi spazio: la platea dimezzata di poltrone per lasciare agli “interni” la scena mentre il palco abbandona la sua tradizionale struttura per consentire alla scenografica la prospettiva dello Spazio.
La performance inizia mentre è già iniziato lo spettacolo: gli attori in posizione da prima che si spengano le luci e la dottoressa – nell’opera originale, dottore – Kris Kelvin (Federica Rossellini), in tuta da astronauta, “appare” in scena dal “vuoto” lasciato da un enorme schermo luminoso rotondo – “la porta di accesso” alla navicella – che si apre, letteralmente grazie ad alcune funi che comandano i suoi movimenti. Lo spettacolo è appena iniziato e già è chiara la sua volontà di impressionare chiedendo in prestito al cinema le aspettative di un racconto di fantascienza.
Il teatro diventa così l’ibrido di una narrazione distopica che si fonde con l’ambiente della verosimiglianza per eccellenza. La psicoterapeuta Kelvin, giunta perché non ha più ricevuto notizie di quanto sta succedendo a bordo, sancisce il principio della consapevolezza di una situazione critica anche per i due superstiti, la dottoressa Sartorius (Sandra Toffolatti) e il dottore Snaut (Warner Waas), i quali soltanto attraverso il confronto con Kris realizzano l’effettivo stato della loro spedizione:“è già il giorno 700?”. Il dottor Gibarian, che comparirà in video nel corpo e nella voce di Umberto Orsini, ricercato ossessivamente dalla dottoressa Kelvin, è morto poco prima del suo arrivo.
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E’con la psicoterapeuta Kelvin che Solaris – tra gli altri “fantasmi” che appaiono durante le ore del sonno – restituisce Ray, (Giulia Mazzarino), il suo amore perduto in giovane età. Ma chi è Ray? Chi sono “i visitatori”che “tornano”? Da dove?
Secondo gli abitanti della stazione spaziale che hanno già avuto l’esperienza di una bambina e una donna anziana, Solaris non fa altro che far emergere dal suo oceano particelle d’acqua onirica, o meglio, ricordi che si presentano nella vividezza dell’ultimo stato impresso in loro. I visitatori non hanno quindi una vera esistenza, dove per esistenza si intende una coscienza e una memoria, vivono della narrazione che i dottori hanno creato per loro, la rappresentazione che l’Altro assume attraverso di noi per noi stessi.
La narrazione è, secondo Bruner, il primo dispositivo interpretativo e conoscitivo di cui l’essere umano in quanto soggetto socio-culturalmente situato, fa uso della sua esperienza di vita. Se è attraverso di essa che si conferisce senso e significato al proprio esperire e si delineano coordinate interpretative e prefigurative di eventi, azioni, situazioni e su queste basi si costruiscono forme di conoscenza che orientano l’ agire individuale, allora l’oceano di Solaris è la timida risposta al “chi siamo veramente?”.
Solaris funziona come un sistema che restituisce ciò che siamo noi a inviargli, inconsciamente, il contatto di cui gli scienziati che abitano la navicella parlano e desiderano instaurare è probabilmente già avvenuto ed è quello che loro ritengono un fallimento, ovvero, l’apparizione dei visitatori, dei “mostri”. Il contatto che conoscono solamente come forma di comunicazione orale supera il limite della conoscenza così unicamente riproducibile, materializzandosi davanti ai loro occhi come il nulla da cui è tratto e l’infinito da cui è inghiottito l’essere umano.
di Alessio Avellino